Mettevi il casco e iniziate a respirare l'aria di Roma, un'aria unica, ricca di 2 millenni di storia e di vite che si sono succedute tra sanpietrini e nasoni.
È noto a tutto il mondo che il panorama più suggestivo di Roma si gode dal Gianicolo. Se decidete di approfittare di questa splendida vista sui tetti della città eterna, cercate di trovarvi lì un po’ prima di mezzogiorno. A quell’ora c’è il famoso “botto”, uno sparo a salve del cannone: quello in uso oggi è stato usato dall’esercito italiano durante la Seconda guerra mondiale. La cannonata fu introdotta da papa Pio IX nel 1847 con lo scopo di avere un segnale unico per rimettere l’ora rispetto il suono scoordinato delle campane romane, suonate più o meno a piacere da ogni parroco. Il cannone era allora in Castel Sant’Angelo, da dove venne spostato nel 1903 sulle pendici di Monte Mario, ma solo per qualche mese, per poi essere posizionato dove è ora, subito sotto la piazza dov’è la statua di Garibaldi, dal 24 gennaio 1904. L’uso non fu interrotto dall’Unità d’Italia, ma dalla guerra sì: la tradizione infatti si sospese nel 1939 per essere poi ripristinata il 21 aprile 1959, in occasione del 2712º anniversario della fondazione di Roma. Alla metà dell’Ottocento il via agli artiglieri era dato quando veniva issata una palla sul tetto della chiesa di Sant’Ignazio, su segnalazione dell’osservatorio astronomico del palazzo a piazza del Collegio Romano. Allo sparo, udito in tutta la città, tutte le chiese di Roma potevano sincronizzare l’ora. Fino agli anni Sessanta lo sparo si poteva udire quasi ovunque mentre oggi, con il caos e i rumori della modernità, si può sentire soltanto nei quartieri prossimi al Gianicolo. La conoscenza dell’ora precisa è sempre stata molto importante per regolare la vita e il lavoro della popolazione. Fino ad allora il tempo veniva calcolato non da mezzogiorno o da mezzanotte: la prima ora della giornata era annunciata dalle campane delle chiese nel momento del canto dell’Ave Maria, cioè subito dopo il tramonto del sole. In altre parole, tutto era demandato ai singoli parroci che suonavano le campane a loro discrezione – con il caos che vi lascio immaginare. Il “segnale orario” sincronizzato con il tramonto era molto utile per comunicare a tutti che la giornata lavorativa era finita, mentre le restanti ore del giorno e della notte erano scandite dai canti liturgici e dal suono delle campane. È così che nacque la tradizione del “botto” del Gianicolo, al quale i veri romani sono ancora legatissimi.
È così che nacque la tradizione del “botto” del Gianicolo, al quale i veri romani sono ancora legatissimi.
Nel cuore di Trastevere c’è una bellissima piazza, sempre affollata giorno e notte, dove troviamo la Basilica e la fontana più antiche di Roma.
Per risalire alle origini della Basilica di Santa Maria in Trastevere dobbiamo fare un passo indietro nel tempo. Nel 38 a.C. al posto della chiesa c’era una Taberna Meritoria, una specie di foresteria per soldati. Un giorno, all’interno della locanda, sgorgò all’improvviso uno zampillo di liquido nero e oleoso, che defluì ininterrottamente per un giorno intero, arrivando fino al Tevere. Gli ebrei lo interpretarono come una premonizione divina dell’avvento del Messia, e i cristiani provenienti dall’ebraismo rafforzarono la tradizione: l’olio, segno della misericordia del Signore, annunciava la futura venuta di Gesù Cristo (Cristo, in greco, significa “unto”). Tutti si convinsero e in seguito l’imperatore Alessandro Severo (222-235), dopo un’accesa disputa tra tavernieri e cristiani per l’uso della taberna, scelse di assegnare ai cristiani la proprietà dell’edificio pubblico per adibirlo alle cerimonie religiose. Questa la leggenda più cara ai credenti, mentre una molto più prosaica è legata alla fontana. Questa, che sorgeva decentrata nella piazza, in età augustea era alimentata dall’acqua Alsietina, un’acqua malsana che Augusto portò a Roma per alimentare la sua Naumachia (lago artificiale per battaglie navali), situata nell’area vicina all’odierna piazza di San Cosimato. Quest’acqua, essendo non potabile, era denominata con il vocabolo latino oleata, che significa “inquinata”. Attenendosi alla leggenda cristiana, la Basilica fu fondata nel 221 sotto papa Callisto I e terminata solo nel 341. Fu modificata più volte sino all’aggiunta del portico a cura di Carlo Fontana, nel 1702, che gli ha dato l’aspetto che oggi vediamo. All’interno della chiesa, sotto l’altare, un’iscrizione ricorda il punto esatto da dove sgorgò l’olio. Il prodigio è poi ricordato nei mosaici absidali, dove si può vedere la Taberna Meritoria e il liquido che, da essa, raggiunge il Tevere. Anche la fontana, nel tempo, subì vari rifacimenti: il primo attribuito al Bramante (1496-1501), il secondo a Giovanni Fontana che rifece la vasca di forma ottagonale. Bernini, nel 1659, spostò il monumento al centro della piazza, lo innalzò su dei gradini e aggiunse quattro conchiglie. Nel 1694 Carlo Fontana ampliò la vasca e inserì delle conchiglie più grandi. Attualmente la fontana si erge su un basamento ottagonale in travertino, e presenta una vasca in marmo interamente restaurata del 1873.
Passeggiando sul lungotevere, poco prima del domenicale mercato di Porta Portese, vi suggerisco di girare nel vicolo a destra e vi troverete in un’altra città. Lontani dal traffico e dal caos della metropoli, sarete a breve nella deliziosa piazza di Santa Cecilia. Entrando nel bellissimo quadriportico vi troverete di fronte a una vasca con un antichissimo vaso romano del V secolo trovato nei sotterranei della Basilica. Il vaso è un rarissimo esempio di “cantharus”, cioè una vasca per immersione rituale, usata dai primi cristiani, e va detto che è grazie al “cantharus” che rimane oggi la tradizione di bagnarsi le mani nell’acqua santa quando entriamo in una chiesa. Inutile segnalare di guardare la bella facciata e il superbo campanile; entriamo nel bellissimo interno e concentriamoci sulla leggenda che, come sempre, ci interessa. Di fronte l’altare c’è la tomba di Santa Cecilia con la stupenda statua realizzata da Stefano Maderno, fratello del più famoso Carlo (autore nientemeno che della facciata di San Pietro). Subito colpisce la “strana” posizione assunta dalla Santa, ma per capire il perché di tale raffigurazione dobbiamo fare un giretto nel passato. È il 200 d.C. e, come si sa, il cristianesimo è proibito e i cristiani perseguitati. Una giovane e nobile donna, Cecilia, si converte alla fede cristiana e comincia a professarla e diffonderla; per questo viene imprigionata e uccisa (prima tentano di soffocarla e poi, sembra, la decapitano). Papa Urbano I, dopo averla fatta seppellire in un posto mai precisato, sul luogo del martirio che corrisponde all’abitazione della donna fa erigere una chiesa a lei dedicata. Passano alcuni secoli e nell’anno 820, quando ormai il cristianesimo è consolidato, la santa appare in sogno a papa Pasquale I (che da anni ne stava cercando i resti per dare al corpo degna sepoltura) indicandogli con esattezza il luogo dove giace il suo corpo. Il papa fa iniziare subito gli scavi e infatti ritrova il corpo, miracolosamente e perfettamente conservato, e lo fa seppellire nella sua chiesa, che nel frattempo aveva fatto ricostruire. Passano ancora otto secoli, e nel 1599 la salma viene riesumata: gli studiosi constatano che il corpo ha un vistoso taglio alla gola, proprio come indicato dalla leggenda del martirio, ed è ancora perfettamente integro dopo quasi 1.400 anni. A questo punto il miracolo è appurato, e viene dato incarico al Maderno di realizzare una statua nell’identica posa in cui è stato ritrovato il corpo della santa. Se osservate il dettaglio delle mani, vedrete che una indica l’uno e l’altra il tre: il mistero della Santissima Trinità. Nel 1900 vengono eseguiti degli scavi archeologici nei sotterranei della Basilica e indovinate cosa trovano gli archeologi: i resti di una casa nobile romana del II sec d.C. con tanto di calidarium...
La casa di Santa Cecilia! Leggenda o realtà? Roma è così, non si sa mai dove inizia la storia e dove finisce la leggenda.
“Diceee...” così cominciano i racconti dei romani, ma questa volta ci sta proprio. Dice che l’Isola Tiberina sia stata realizzata artificialmente dai romani accatastando dei covoni di grano presi dai campi che Tarquinio il Superbo possedeva in Campo Marzio – questo in segno di disprezzo quando cacciarono il re da Roma. Qualunque sia l’origine dell’isola, è ovvia l’importanza che ha sempre avuto, sia per l’attraversamento del fiume che per poter depositare tutto ciò che non si voleva in terraferma. L’isola appare come una nave che, ferma sul fiume, accoglie il suo destino. Ma vediamo perché ha questa forma. La leggenda narra che nel 293 a.C. è in corso a Roma una gravissima epidemia e si pensa che l’unica soluzione sia quella di ricorrere a Esculapio, dio della Medicina. Una commissione di esperti medici fu inviata con una “galea” (una nave) in Grecia, a Epidauro, luogo di dimora del dio. Giunti alla meta, un serpente uscì dal tempio e si diresse verso la nave: tutti videro in questo il segno che il dio volesse trasferirsi a Roma. La nave tornò verso Roma e, giunti nei pressi della città, il serpente si gettò dalla nave per rifugiarsi sull’Isola Tiberina. Era chiaro: il dio voleva salvare la città ed aveva scelto anche la sua sede. Sul luogo venne eretto un tempio dedicato ad Esculapio e la pestilenza presto cessò. A ricordo dell’accaduto, e per testimoniare la stabilità della volontà del dio, i romani risistemarono l’isola dandole la forma di una nave completamente rivestita di marmo, con tanto di obelisco a mo’ di albero maestro: da allora il simbolo della medicina è rappresentato dal bastone con il serpente di Esculapio. Moltissime incisioni antiche riportano l’immagine della nave di pietra. Il simbolico travestimento dell’isola è ancora oggi visibile se si scende verso gli argini del Tevere, mentre l’albero maestro-obelisco è stato sostituito in tempi recenti da una colonna più piccola, e si trova nella piazzetta di fronte alla chiesa sull’isola. Osservando con attenzione potrete vedere, nel pezzo di nave di pietra ancora conservato, un particolare importante: la scultura di un pezzo del bastone del dio Esculapio... un bastone con arrotolato un serpente... vedete come torna ciò che vi ho raccontato? ...
A proposito, ancora oggi sull’isola c’è il più antico ospedale della città: l’ospedale Fatebenefratelli.
Nel Medioevo, sul luogo del tempio di Esculapio, fu eretta la chiesa di San Bartolomeo, che contiene altre “chicche” che tanto ci piacciono.
La palla del cannone. Durante l’assedio di Roma, nel giugno 1849, da parete dei francesi, una palla di cannone da 14 cm. scagliata dalla via Aurelia cadde nella Cappella del Sacramento. In quel momento la chiesa era gremita di gente, ma miracolosamente tutti restarono illesi. La palla è ancora conservata in loco, incastrata nella parete di sinistra, a ricordo del miracolo.
Il pozzo d’acqua miracolosa. All’interno della chiesa possiamo vedere un pozzo con figure di santi in bassorilievo, risalente al secolo XII. È il pozzo dell’isola: in passato, con la decadenza degli acquedotti romani, il reperimento dell’acqua era un problema per tutta Roma. L’acqua però fu ritenuta miracolosa poiché all’interno, durante lo scavo, furono ritrovati i resti dei martiri romani Esuperanzio e Marcello. Nel secolo scorso il pozzo fu chiuso con la croce di ferro che ancora vediamo poiché l’acqua, fatta analizzare risultò inquinata.
La Madonna della Lampada. Entrando nella chiesa, nella prima cappella a destra, si venera la prodigiosa immagine della Madonna della Lampada. Si racconta che durante la devastante inondazione del Tevere del 1557 il dipinto della Madonna della Mole (così era conosciuta prima dell’evento) venne trascinato in acqua, ma fu possibile recuperarlo perché la lanterna che lo illuminava restò accesa anche sott’acqua. Da qui la devozione per questo dipinto che da allora prese per tutti i romani il nome di Madonna della lampada. A proposito delle piene del fiume sotto il portico della facciata, una targa ricorda il livello raggiunto dall’esondazione, mentre un’altra la potete vedere all’entrata del Pronto Soccorso dell’Ospedale.
La colonna del precetto pasquale e Bartolomeo Pinelli
Prima del precetto pasquale, i parroci compilavano le liste di tutti i romani battezzati per invitarli alla Comunione. Girando per case, botteghe e osterie rilasciavano un biglietto, ricevendo un obolo per la chiesa. Tutti quelli che non si recavano ad ottemperare l’obbligo, vedevano il loro nome affisso sulla colonna al centro della piazza di San Bartolomeo il 27 di agosto. La colonna era quella andata distrutta nel 1867, urtata da un carro, e che era stata eretta in vece dell’antico obelisco-albero della nave. Capitava, in realtà, che qualcuno risultasse schedato solo per non aver versato l’obolo e ritirato il biglietto. Questi (“scomunicati de Pasqua” come diceva il Belli), oltre che commettere un peccato mortale venivano interdetti e non potevano entrare in chiesa; inoltre in caso di morte non potevano ricevere sepoltura cristiana. Per tornare in “grazia di Dio” gli scomunicati dovevano partecipare a una funzione dove avrebbero ricevuto prediche e pene corporali. Incappò nell’incidente anche il famoso incisore ritrattista di Roma: Bartolomeo Pinelli. “Er pittore de Trastevere” protestò calorosamente in sagrestia non tanto per l’interdizione, ma perché sulla colonna apparve il suo nome con la qualifica di “miniatore”: una vera offesa per l’artista. Pinelli morì comunque scomunicato e, non avendo ricevuto cristiana sepoltura, il corpo non si sa dove sia stato realmente tumulato. Come già detto, si rischiavano gravi punizioni; oltre alle pene corporali, a volte anche il carcere, e i controlli erano rigidissimi. Viene quindi spontaneo pensare che molti romani siano stati ligi alle regole più per evitare le conseguenze repressive che per reale convinzione.
Frate Orsenigo “er cavadenti”
Sempre legata all’isola – e più precisamente all’Ospedale Fatebenefratelli – è la figura di frate Orsenigo. Verso la fine dell’Ottocento non esistevano certo raffinati strumenti e studi odontoiatrici; quindi, al pian terreno dell’ospedale questo imponente “fratone” risolveva rapidamente tutti i problemi di denti. L’atletico frate Orsenigo era famosissimo tra i romani. Non era un dentista e non prescriveva antibiotici o antidolorifici; molto semplicemente, e in maniera rapida, estraeva i denti a tutta la moltitudine di persone che si rivolgeva all’ospedale. Aveva fatto “tirocinio” nella bottega di macellaio del padre; non possedeva chissà quali strumenti ma spesso, per trattare più persone possibile, estraeva i denti in piedi e si dice semplicemente con l’indice e il pollice della mano destra. A mani nude, ovviamente. La “visita” era totalmente gratuita e si dice che la fila arrivava fino a Ponte Quattro Capi. Nel corso della sua carriera curò anche personaggi famosi, e addirittura papa Leone XIII, che lo ringraziò per la sua mano vellutata.
Repertava tutti i denti estratti e li radunava in tre cassepanche che, pare, contenessero due milioni di esemplari.
Molti credono che il ponte più antico di Roma sia Ponte Milvio, o meglio Ponte Mollo per i romani; invece quello più vecchio, così come ci si presenta, è Ponte Fabricio che nella città tutti chiamano Ponte ai Quattro Capi. Fu fatto costruire da Lucio Fabricio, il curatore romano delle strade, il cui nome è riportato su una delle arcate. Come già detto per l’Isola Tiberina, sappiamo che l’attraversamento del fiume non era cosa semplice, a causa soprattutto delle piene frequenti prima della costruzione dei “muraglioni”, per cui si è posta molta attenzione e cura alla manutenzione e alla costruzione dei ponti. Tenete presente che la parola “pontefice” deriva dal latino pontem facere, quindi la massima autorità oggi conosciuta è proprio colui che fa i ponti. Ma torniamo al nostro ponte. Perché i romani lo chiamano Ponte Quattro Capi? Nei secoli, tra il popolo, si è diffusa la denominazione per via delle quattro teste (in realtà sono otto) che sono nelle due erme di pietra sui due lati all’inizio del ponte. La leggenda racconta che alla fine del 1500 papa Sisto V, una volta eletto, promise di edificare cinque strade (assi listini), cinque fontane e cinque ponti. Uno dei ponti previsti è il nostro, anche se in realtà si trattò di un restauro e non di una costruzione ex novo. Commissionò il lavoro a quattro importanti architetti, ma durante il lavoro i rapporti tra i quattro furono piuttosto burrascosi: rivalità, invidie e odio vennero manifestati con dispetti e sabotaggi. Sisto V, pontefice non tenero, aspettò con pazienza la fine dei lavori, si congratulò con gli architetti per il lavoro svolto e, a ponte ultimato, li condannò a morte. Furono decapitati proprio sul ponte, e a monito il papa fece realizzare e collocare, dove ancora è oggi, due erme quadrifronti con le effigi dei poveri architetti. Ogni artista dà le spalle agli altri, come fatto in vita, ma restano tutti condannati a rimanere insieme per l’eternità. Visto che siete lì, guardate la torre sull’isola alla fine del ponte. È la torre dei Castani, conosciuta a Roma con il nome di torre della Pulzella, a causa di una piccola testa femminile in marmo murata presso l’angolo che guarda il ponte,
un ritratto di epoca romana ormai consumato dal tempo, che sembra guardare da un’ipotetica finestra chi arrivi sull’Isola passando per il vetusto ponte.
Provenendo dal lungotevere e percorrendo via Arenula, se giriamo a destra, ci ritroviamo nell’antico ghetto di Roma e lì troviamo una graziosissima piazza con una meravigliosa fontana. Siamo in piazza Mattei, e la fontana, progettata da Giacomo Della Porta, è quella delle tartarughe. Circa quattrocento anni fa nella piazza viveva, nel suo palazzo, il duca Mattei. Come molti a Roma in quel periodo, il duca era un accanito giocatore d’azzardo e in una sola notte riuscì a giocarsi tutto il suo patrimonio, compreso il suo bel palazzo che dà il nome alla piazza. Il futuro suocero del duca non gradì molto la notizia, e fece sapere all’ormai squattrinato nobil’uomo che doveva trovare una nuova fidanzata. Il giovane duca, però, non era tipo da arrendersi per così poco, e fece girare la notizia che se in una notte era riuscito a perdere tutto, in un’altra sola notte sarebbe riuscito a creare un qualcosa di meraviglioso. In una sola notte, infatti, fece erigere di fronte il suo palazzo una fantastica fontana, quella che appunto ancora oggi possiamo ammirare. Invitò il futuro e denigratore suocero con la promessa sposa a palazzo per colazione, li fece entrare da una porta sul retro e, prima di sedersi a tavola, spalancò una finestra e mostrò la splendida fontana agli increduli ospiti. “Vedete cosa è capace di fare in poche ore uno squattrinato come me!”. Il suocero si scusò immediatamente per tutto quello che aveva detto e concesse di nuovo in sposa la figlia. Il duca, soddisfatto, a memoria dell’episodio decise che quella vista sarebbe stata impedita a chiunque altro e diede disposizione di murare quella finestra.
Guardate il palazzo: alla destra del portone, al primo piano, vedete quella finestra murata? È quella della leggenda.
In realtà la fontana è stata realizzata nel 1581, mentre il Palazzo Mattei è del 1616; il furbo duca, quindi, non ha fatto costruire la fontana ma l’ha fatta soltanto spostare da qualche altro sito dove era collocata. Nel 1658, per volere di papa Alessandro VII, la fontana fu restaurata dal Bernini, che aggiunse le tartarughe (che le danno il nome) al posto di alcuni delfini che c’erano in origine.
Umberto Magni, architetto, nipote del regista Luigi Magni (1928-2013), è nato e vive a Roma. Ha insegnato architettura per più di vent'anni. Cresciuto in una famiglia di "romani de Roma", accanto allo svolgimento della professione cerca da sempre di trasmettere per "contagio" il suo amore per la Città Eterna.
Il libro Mo' te racconto Roma è disponibile qui: www.bordeauxedizioni.